Cassazione, Sezioni Unite, sent. n. 1946 del 25.01.2017
Con sentenza n. 1946 del 25.01.2017 le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione affermano il diritto del figlio nato da parto anonimo non riconosciuto alla nascita e adottato da terzi ad accedere alle informazioni che riguardano la sua origine naturale.
La richiesta scaturiva dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione che chiedeva alla Suprema Corte l’enunciazione, ex articolo 363 comma 1 cod. proc. civ.[1], del principio di diritto nell’interesse della legge al quale la Corte d’appello di Milano avrebbe dovuto conformarsi nel decidere il reclamo proposto da figlio maggiorenne nato da parto anonimo, che aveva fatto istanza al giudice di verificare, con interpello riservato, la persistenza della volontà della madre di non essere nominata.
La Corte di secondo grado riteneva di dover negare la possibilità di dare seguito alla richiesta del figlio a causa della mancanza di un intervento del legislatore sul punto finalizzato a fornire ed indicare ai giudici gli strumenti e le modalità per procedere ad interpello riservato.
L’incertezza circa la disciplina applicabile era collegata alla pronuncia n. 278 del 2013 della Corte Costituzionale, con la quale veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 28 comma 7 della legge n. 184 / 1983 [2] (“Diritto del minore ad una famiglia”) nella parte in cui non prevedeva la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio, di interpellare la madre che avesse dichiarato di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di questa dichiarazione.
La Corte Costituzionale nel 2013 intervenne in questa materia a seguito della decisione della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 2012 che, a seguito del superamento, nel 2005, del vaglio di legittimità del citato comma 7, aveva ritenuto la legge italiana troppo orientata verso la tutela degli interessi della madre, non garantendo un bilanciamento tra i diritti e interessi concorrenti di entrambe le parti coinvolte, in violazione del diritto alla vita privata e familiare assicurato dall’articolo 8 della Convenzione europea.
Con la pronuncia del 2013, la Corte Costituzionale riaffermava il diritto all’anonimato della madre (riposto sull’esigenza di salvaguardare quest’ultima e il neonato), ma, al tempo stesso, quello del figlio a conoscere le proprie origini e ciò in quanto questo costituisce un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona.
La Corte, in particolare, dichiarava come il citato comma 7 fosse eccessivamente rigido, prefigurando una sorta di «cristallizzazione o immobilizzazione nelle modalità di esercizio del diritto all’anonimato della madre […] non essendo legittimo che la volontà espressa in un dato momento non sia eventualmente revocabile».
La questione di diritto sottoposta dal Procuratore Generale all’attenzione della Suprema Corte era posta su due punti essenziali:
- giusto bilanciamento tra i contrapposti diritti delle persone coinvolte;
- corretta interpretazione della pronuncia della Corte Costituzionale; incertezze erano sorte, infatti, in merito al momento dell’efficacia della sentenza; in particolare, se l’efficacia della sentenza dovesse essere rimandata al successivo intervento del legislatore recante la disciplina del procedimento mediante il quale il giudice possa interpellare la donna che ha partorito, secondo criteri che le garantiscano il diritto alla riservatezza e in assenza del quale il Tribunale dei Minorenni non potrebbe dar seguito alla richiesta del figlio adottato, o se, al contrario, l’efficacia del principio sancito dalla Consulta potesse essere applicato, anche in assenza di legge, dai giudici di merito.
La Corte d’appello di Milano, nel negare la richiesta del figlio, in mancanza di un intervento auspicato del legislatore sul punto, aderiva così al primo orientamento.
Tuttavia, secondo la Suprema Corte, tale rigetto, si tradurrebbe nell’applicazione di una norma ormai rimossa dal nostro ordinamento, in quanto giudicata costituzionalmente illegittima.
Infatti, essendo quella della Corte Costituzionale una sentenza additiva di principio, l’effetto della dichiarazione di illegittimità investe la norma nella parte in cui non prevede qualcosa e ha come conseguenza l’onere a carico del legislatore di introdurre apposite disposizioni per colmare il vuoto normativo creatosi e ha la funzione di fornire al giudice dei criteri guida al fine di individuare per il singolo caso la regola da applicarsi, che sia espressione del principio emesso dal giudice delle leggi.
In conclusione, sulla richiesta del Procuratore Generale ai sensi dell’articolo 363, primo comma, cod. proc. civ., le Sezioni Unite enunciano il seguente principio: «In tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 278 del 2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato alla Corte Costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità».
Le Sezioni Unite hanno così disposto che, in riferimento e in applicazione delle indicazioni contenute nel principio additivo, i giudici, debbano accogliere la richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini, applicando un procedimento idoneo ad assicurare un equilibrio tra questo diritto e quello della riservatezza della madre; procedimento che dovrà essere predisposto dal legislatore: infatti nella sentenza in commento, gli ermellini riconoscono l’applicazione di diversi protocolli adottati da alcuni Tribunali dei Minorenni, ma si attende la predisposizione di un procedimento uniforme da parte del legislatore.
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[1] Articolo 363. comma 1, cod. proc. civ. “Principio di diritto nell’interesse della legge”: quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell’interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi.
[2] Articolo 28 comma 7 Legge n 184/1983: l’accesso alle informazioni non è consentito se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato, o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo.