La Corte Costituzionale con la sentenza n. 59, depositata in data 01 aprile 2021, ha provveduto a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (il cosiddetto Statuto dei Lavoratori, formalmente rubricato “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”), così come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b) della legge 28 giugno 2012, n. 92 (la cosiddetta Riforma Fornero, formalmente rubricata “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”).
La Corte Costituzionale recentemente è stata chiamata a pronunciarsi su una questione di costituzionalità relativa ai licenziamenti economici, ovvero ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, consistenti nell’atto con il quale il datore di lavoro interrompe unilateralmente il rapporto di lavoro con il dipendente per motivi che non riguardano il comportamento di quest’ultimo, bensì per ragioni che riguardano la riorganizzazione aziendale. La Consulta, con la sentenza in oggetto, ha provveduto a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, come modificato dalla Riforma Fornero, nella parte in cui esso prevede che la reintegra del lavoratore, a seguito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui i fatti posti a suo fondamento siano insussistenti, sia una mera facoltà del giudice, anziché un suo dovere.
Vediamo ora come la Corte sia giunta a tale conclusione.
La questione di legittimità oggetto della pronuncia è stata promossa dal Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione del giudice del lavoro, con ordinanza del 7 febbraio 2020, iscritta al n. 101 del registro ordinanze 2020, con la quale il rimettente sostiene l’incostituzionalità della disposizione sopracitata nella parte in cui essa sancisce che il giudice possa – e non debba – ordinare la reintegrazione del lavoratore, ex art. 18, c. 4, dello Statuto dei Lavoratori, qualora accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il rimettente ritiene innanzitutto che l’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della L. n. 300/1970 possa violare il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione, in quanto la sua applicazione comporterebbe l’instaurarsi di un <<trattamento ragionevolmente discriminatorio>> nei confronti di situazioni identiche, consistenti nel licenziamento per giusta causa e nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, dei quali in ogni caso si accerti in giudizio l’infondatezza; al verificarsi della prima ipotesi, infatti, la reintegrazione del lavoratore ad opera del datore di lavoro risulterebbe obbligatoria ai sensi di quanto stabilito dall’art. 18, c. 4 della legge in esame, contrariamente nella seconda ipotesi questa risulterebbe facoltativa e dipendente dalla mera discrezionalità del giudice.
Non è questa l’unica violazione della Carta costituzionale che il giudice a quo ritenga derivare dalla disposizione suddetta; questi infatti evidenzia sussistere anche un’inosservanza dell’art. 41 Cost., tutelante la libertà di iniziativa economica privata, alla quale vengono posti dei limiti, in quanto la disposizione oggetto del ricorso, attribuendo al giudice la facoltà di negare la tutela reintegratoria e, conseguentemente, di intimare un nuovo <<atto espulsivo>> del lavoratore, consistente nel licenziamento, gli consentirebbe di compiere alcune scelte organizzative che abitualmente dovrebbero essere riservate all’imprenditore.
La norma censurata risulta inoltre lesiva dell’art. 24 della Costituzione, il quale garantisce il diritto di tutti di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, sancendo l’inviolabilità del diritto di difesa. In tale ipotesi, infatti, il legislatore nell’attribuire al giudice la facoltà di disporre un nuovo licenziamento non riconoscerebbe al lavoratore la possibilità di difendersi, trovandosi costui esposto ad una facoltà giudiziale che è meramente discrezionale. Analizzando inoltre l’art. 24 in correlazione al precedentemente menzionato art. 3, emergerebbero altre sue violazioni: in primis, il diritto di azione del lavoratore viene ostacolato dalla scelta attuata dalla legge ordinaria di far dipendere la tutela del lavoratore dalla mera qualificazione del datore di lavoro, il quale avrebbe la possibilità di scegliere quale tutela giurisdizionale applicare; in secundis, in quanto il licenziamento disposto dal giudice pedissequamente alla negazione della tutela reintegratoria comporterebbe, per il lavoratore un trattamento differente e peggiore rispetto a quello derivante da qualsiasi altro tradizionale licenziamento intimato dal datore di lavoro.
Il giudizio devoluto dal Tribunale ordinario di Ravenna è stato accolto dalla Corte Costituzionale, la quale dopo aver esaminato e respinto tutte le eccezioni di inammissibilità eccepite dal Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, ha ritenuto la questione non solo ammissibile, ma anche fondata nel merito. Il ragionamento della Corte parta dalle novità apportate dalla Riforma Fornero all’originario testo dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori; il modello precedente era imperniato sull’esistenza di un’unica tutela reintegratoria da applicasi a tutte le ipotesi di nullità, annullabilità e inefficacia del licenziamento, contrariamente al modello attuale che prevede diverse tipologie di tutele reintegratorie. Il legislatore, con la disposizione modificata, prevede, limitatamente all’ipotesi di licenziamento per giusta causa di cui venga accertata l’insussistenza del fatto posto a base del recesso, l’applicazione di una tutela reintegratoria, consistente nel ripristino del rapporto di lavoro unitamente ad un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, ma comunque fino a un massimo di dodici mensilità; il lavoratore può in ogni caso, optare per l’ottenimento di un’indennità sostitutiva alla reintegrazione. Nel caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo connesso a ragioni produttive, economiche, organizzative, ovvero il licenziamento oggetto della questione di legittimità costituzionale, il regime sanzionatorio previsto dall’art. 18 della L. 300/1970, come rinnovato dalla L. 92/2012, prevede di regola la corresponsione di un’indennità risarcitoria, compresa tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità; in tale ipotesi la possibilità di reintegrazione, unitamente al risarcimento fino a un massimo di dodici mensilità, si circoscrive alle sole ipotesi di manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, l’accertamento della quale non rappresenta però un automatismo ai fini della reintegrazione, essendo questa rimessa alla facoltà discrezionale del giudice.
Il definire la reintegra quale mera facoltà del giudice, il quale dispone della possibilità di concederla o negarla, rappresenta una lesione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza; il carattere meramente facoltativo della reintegrazione per i licenziamenti economici palesa una disarmonia interna al sistema delineato dalla l. 92/2012. Nello specifico, il principio di eguaglianza è da considerarsi violato a causa della previsione di due differenti regimi sanzionatori da applicarsi ad un medesimo vizio del licenziamento, rinvenibile nell’insussistenza del fatto, in quanto relativamente ai licenziamenti disciplinari il legislatore ha previsto la reintegrazione del lavoratore nell’ipotesi in cui si accerti in giudizio l’insussistenza del fatto posto alla base del recesso, mentre per i licenziamenti economici l’insussistenza del fatto può condurre alla reintegrazione solamente ove questa sia manifesta. Alla più evidente violazione del principio di eguaglianza si associa anche una lesione del principio di ragionevolezza, in relazione al criterio distintivo adottato in merito alla tutela reintegratoria, che comporta ulteriori disparità di trattamento. Il giudice a quo, infatti, critica alla norma in esame l’irragionevole previsione di una disciplina <<del tutto priva di criteri applicativi>> che siano idonei ad orientare il potere discrezionale del giudice relativamente alla disposizione, ovvero alla non disposizione, della reintegrazione; la scelta tra le due differenti forme di tutela è rimessa infatti alla completa valutazione del giudice, il quale non è coadiuvato da precisi punti di riferimento e ciò comporta una contraddizione dell’obiettivo di procedere a un’equa ridistribuzione <<delle tutele dell’impiego>>, previsto dall’art. 1, c. 1, lettera c) della Riforma Fornero.
Per tutti i motivi sopra esaminati, la Corte Costituzionale ritiene fondata l’ordinanza emessa dal Tribunale di Ravenna e dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, così come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, <<può altresì applicare>>, anziché <<applica altresì>>, la disciplina di cui al quarto comma del medesimo art. 18, che contempla la reintegra del lavoratore.
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