Premessa: l’infortunio sul lavoro nella disciplina generale.
L’infortunio sul lavoro costituisce un evento traumatico, avvenuto per causa violenta sul posto di lavoro od anche in occasione di lavoro, che comporta l’impossibilità per il dipendente di svolgere la corrispondente attività per un periodo di tempo superiore a tre giorni (si pensi, ad esempio, alla caduta di un attrezzo molto pesante sul piede di un operaio che ne provoca lo schiacciamento).
La tutela che la legge accorda al lavoratore infortunato è di tipo economico-indennitaria ed è posta a carico del datore di lavoro per i primi tre giorni e a carico dell’INAIL dal quarto giorno, che applica i parametri previsti dalla legge.
L’infortunio sul lavoro causato da infezione da nuovo Coronavirus.
Come appena spiegato, la causa violenta costituisce uno dei presupposti fondamentali per l’esistenza dell’infortunio.
Ci si chiede se la contrazione di un virus possa essere considerata causa violenta in tali termini.
La risposta è affermativa ed ha radici profonde: l’INAIL infatti, sin dal lontano 1995, inquadra, per l’aspetto assicurativo, le malattie infettive e parassitarie come infortunio sul lavoro, equiparando in tal modo la causa virulenta / morbosa a quella violenta (così Circolare INAIL 23/11/1995, n. 74).
In ogni caso, è lo stesso Decreto Cura Italia che, all’art. 42, comma 2, specifica in modo espresso che l’infezione da Covid-19 durante lo svolgimento dell’attività lavorativa debba essere considerato infortunio sul lavoro.
L’articolo in parola riporta testualmente che, «nei casi accertati coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato». Tale disposizione prosegue affermando che «le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro […]».
La locuzione “in occasione di lavoro” deve essere intesa in senso ampio, nel senso che ricomprende non solo l’infortunio verificatosi presso il luogo ove si svolge effettivamente l’attività lavorativa, ma anche quello occorso durante il tragitto casa – lavoro (e viceversa) compiuto dal lavoratore (cosiddetto infortunio in itinere). Dunque, ciò che rileva è il nesso causale tra il lavoro e il verificarsi del danno.
I compiti e la responsabilità del datore di lavoro.
In via preliminare, si fa presente che il datore di lavoro è responsabile della salute e della sicurezza dei suoi dipendenti e, per tali motivi, deve adottare tutte le misure idonee per prevenire infortuni e malattie sul lavoro (art. 2087 cod. civ.; D.lgs. n. 231/2001; D.lgs. n. 81/2008).
Tuttavia, in tale contesto pandemico è quasi impossibile stabilire con estrema certezza in quale ambito (familiare; lavorativo; sociale) la malattia sia stata contratta.
In altre parole, non è semplice dimostrare che un lavoratore abbia contratto il virus proprio sul posto di lavoro, soprattutto se si considera che il periodo di tempo che intercorre fra il contagio e lo sviluppo dei sintomi clinici (cosiddetto periodo di incubazione) è delimitato in un arco temporale tra i 2 ed i 12 giorni, fino ad un massimo di 14 (evidenze fornite dallo European Centre for Disease Prevention and Control – ECDC); per non contare, peraltro, il caso di soggetti positivi ma asintomatici.
Dunque, il datore di lavoro che voglia tutelarsi da eventuali azioni dirette nei suoi confronti, deve porre in essere tutte quelle misure ed indicazioni che sono state adottare proprio per contrastare e contenere il diffondersi del contagio.
In particolare, con il Protocollo condiviso sottoscritto in data 14 marzo 2020 dal Presidente del Consiglio e dai sindacati ed associazioni di categoria, sono state previste le linee guida cui attenersi.
Il perseguimento delle attività produttive può avvenire solo e soltanto in presenza di condizioni che garantiscono adeguati livelli di protezione.
Ecco alcune delle misure ivi contenute:
- pulizia e sanificazione giornaliera dei locali, postazioni individuali e dei luoghi comuni dell’azienda;
- utilizzo di dispositivi di protezione individuale, quali guanti, mascherine e tute;
- organizzazione aziendale con turnazione, con l’obiettivo di diminuire al massimo i contatti e di creare gruppi;
- gestione scaglionata di entrata e di uscita dei lavoratori dipendenti.
In ogni caso favorire, ove possibile, il lavoro agile (smart working).
L’onere della prova in un eventuale giudizio.
Nell’estremo ma – purtroppo – non improbabile caso in cui la controversia tra il datore e il dipendente dovesse varcare la soglia delle aule giudiziarie, entra in gioco il principio dell’onere della prova (cioè, chi vuole dimostrare l’esistenza di un fatto ha l’obbligo di fornire la prova della sua esistenza).
In ambito di infezione da Covid-19, l’onere della prova riguarda l’esistenza del nesso causale tra lo svolgimento dell’attività lavorativa e la contrazione del virus.
Sul punto, la circolare n. 13 dell’INAIL (clicca qui per leggerla integralmente) ha specificato che l’onere probatorio varia a seconda del tipo di attività lavorativa effettuato.
In particolare sono stati individuati due gruppi di lavoratori:
- quelli esposti ad un elevato rischio sanitario, cioè coloro che hanno un contatto costante con il pubblico (ad esempio, operatori sanitari; cassieri, lavoratori front office, etc.);
- tutti i dipendenti non rientranti nel primo gruppo (impiegati, etc.).
Per la prima categoria di lavoratori l’onere della prova è meno gravoso: infatti, la circostanza di avere un contatto costante con il pubblico li solleva dalla prova del nesso causale.
Ciò significa che, il lavoratore deve solo dimostrare la sussistenza dello stato morboso e di aver svolto mansioni a stretto contatto con il pubblico; di contro, il datore di lavoro, di contro, è tenuto a provare la prova liberatoria, cioè l’assenza del nesso causale tra lavoro e infezione da Covid – 19.
Per la seconda categoria non si può dire parimenti (l’onere è più gravoso): il lavoratore è tenuto a provare il nesso di causa, a pena di soccombenza nel relativo giudizio.
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