Cassazione, sentenza 23 gennaio 2015, n. 1258
La Suprema Corte torna nuovamente ad affrontare la tematica del mobbing, rimarcando l’essenzialità della componente psicologica dell’illiceità del fatto. Secondo i giudici di ultima istanza, infatti, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ravvisarsi comportamenti del datore di lavoro rivelatori, in modo inequivoco, di un’esplicita volontà di emarginazione del lavoratore, occorrendo, pertanto dedurre e provare la ricorrenza di una pluralità di condotte, anche di diversa natura, tutte dirette (oggettivamente) all’espulsione dal contesto lavorativo del dipendente.
Tali condotte, secondo la Cassazione, devono essere connotate da un alto tasso di vessatorietà e prevaricazione, nonché sorrette (soggettivamente) da un intento persecutorio e tra loro intrinsecamente collegate dall’unico fine intenzionale di isolare il dipendente.
Incombe sul lavoratore l’onere probatorio di dimostrare la volontà persecutoria del datore di lavoro.