Cass., ord. n. 10065 / 2024
Con una recentissima pronuncia, la Corte di Cassazione ha adottato una nuova interpretazione restrittiva del concetto di “sede protetta”, in un’ottica di sempre maggiore tutela dei diritti dei lavoratori: notevoli le conseguenze sul piano pratico.
- La conciliazione in sede protetta tra datore di lavoro e lavoratore
Nella materia del diritto del lavoro, la conciliazione è uno strumento che consente di pervenire ad un accordo transattivo tra datore di lavoro e lavoratore, con reciproche rinunce e concessioni. A tale strumento si fa quindi ricorso in fase extragiudiziale, al fine di evitare i costi connessi all’insaturazione di un processo, ma anche in fase giudiziale.
Sul punto, bisogna considerare che nell’ambito del diritto del lavoro si registra una rilevante asimmetria nel rapporto tra le parti: infatti, la posizione di soggezione ed inferiorità in cui si trova il lavoratore lo rende il soggetto più “debole” all’interno del rapporto di lavoro. Per tale motivo, la normativa attualmente vigente avverte l’esigenza di intervenire al fine di porre rimedio a tale disparità tramite la predisposizione di numerose tutele a favore del lavoratore.
Specificatamente, l’articolo 2113 cod. civ. prevede una forma peculiare di tutela del lavoratore, in quanto:
- sancisce l’invalidità delle rinunce e delle transazioni aventi ad oggetto diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi ed
- introduce al riguardo un termine di decadenza per l’impugnazione (entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto ovvero dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima).
Tali previsioni rispondono alla volontà di consentire al lavoratore di riflettere sulla convenienza dell’atto compiuto e di farsi adeguatamente consigliare al riguardo. Tuttavia, a fronte dell’intervento di organi pubblici qualificati nell’ambito della conciliazione tra lavoratore e datore di lavoro, tali previsioni non operano. Infatti, l’articolo 2113 ult. co. sancisce l’inoppugnabilità delle conciliazioni che, pur avendo ad oggetto diritti inderogabili, siano state sottoscritte in sedi protette, ovvero in:
- sede giudiziale (artt. 185 e 420 c.p.c.);
- Ispettorato Territoriale del Lavoro (artt. 410 e 411 co. 1-2 c.p.c.);
- sede sindacale (art. 411 co. 3 c.p.c.);
- collegi di conciliazione ed arbitrato (artt. 412-ter e 412-quaterp.c.).
Si tratta di sedi caratterizzate da neutralità in quanto si presume l’assenza di condizionamenti da parte del datore di lavoro e quindi la possibilità di libera determinazione e di formazione di una genuina volontà da parte del lavoratore. In questo modo, quindi, si considera superata la presunzione di vizio del consenso del prestatore di lavoro.
- Il precedente orientamento giurisprudenziale maggioritario
In base ad un orientamento giurisprudenziale consolidato la “sede sindacale” di cui all’art. 411 co. 3 c.p.c. doveva essere interpretata come luogo virtuale di protezione del lavoratore e non come luogo fisico-topografico (da ultimo, Cass. n. 975 del 18.01.2024). Conseguentemente, il verbale di conciliazione sindacale stipulato in sede fisica diversa dalla sede vera e propria del sindacato non era colpito da invalidità qualora fosse raggiunta da parte del lavoratore l’effettiva consapevolezza dell’atto dispositivo che stava per compiere.
Ciò in quanto si riteneva che la sottoscrizione presso una sede sindacale non costituisse un requisito formale ma piuttosto un requisito funzionale ad evitare che il consenso del lavoratore fosse indotto dalla situazione di soggezione in cui si trova. Pertanto, si considerava realizzato lo scopo perseguito dal legislatore anche nel caso di conciliazione in sede non sindacale in cui fosse comunque garantita al lavoratore concreta ed effettiva assistenza sindacale.
- Il revirêment giurisprudenziale
In netto contrasto con l’orientamento anzidetto si è posta una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione (cfr. ordinanza n. 10065 del 15.04.2024), in cui i giudici hanno adottato un’interpretazione letterale estremamente restrittiva del concetto di “sede sindacale”.
Nel caso di specie, infatti, un verbale di conciliazione stipulato in azienda, e quindi in sede diversa da quella sindacale ma comunque alla presenza di un conciliatore sindacale, è stato dichiarato nullo: ciò in quanto, ad opinione della Corte, la protezione del lavoratore deve essere garantita sia dall’assistenza del rappresentante sindacale che dal luogo fisico in cui si svolge la conciliazione. Infatti, bisogna ritenere che “i luoghi selezionati dal legislatore hanno carattere tassativo e non ammettono, pertanto, equipollenti, sia perché direttamente collegati all’organo deputato alla conciliazione e sia in ragione di assicurare al lavoratore un ambiente neutro, estraneo al dominio e all’influenza della controparte datoriale”.
Conseguentemente, bisogna concludere che sia affetto da nullità il verbale di conciliazione sindacale stipulato presso la sede aziendale, in quanto la sede sindacale non rientra tra le sedi considerate dal legislatore “protette” e la presenza del rappresentante sindacale non sana il difetto di neutralità del luogo di stipula.
- Prospettive future
Le conseguenze di tale pronuncia sono sicuramente notevoli in quanto, in questo modo, la Corte ha determinato un rafforzamento del livello di protezione del lavoratore. Non solo, infatti, vi è la concreta possibilità per i lavoratori di impugnare i verbali di conciliazione sindacale conclusi in sede aziendale entro il termine decadenziale di cui all’articolo 2113 co. 2 cod. civ., ma vengono anche introdotte maggiori complessità per i datori di lavoro per quanto riguarda l’adozione dello strumento conciliativo (si pensi all’ipotesi di conciliazione c.d. telematica).
Si rileva che la recente ordinanza della Corte di Cassazione si discosta notevolmente dal precedente orientamento maggioritario, creando a tutti gli effetti un contrasto giurisprudenziale. Con molta probabilità, quindi, la questione verrà rimessa al vaglio delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, affinché risolvano con il loro intervento la diatriba.
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Dott.ssa Chiara Fucina