Cass., Sez. Lav., 12.12.2019, n. 32702
I buoni lavoro, noti anche come voucher, sono stati introdotti dalla Legge del 14 febbraio 2003, n. 30 (Legge Biagi) con la finalità di regolamentare le prestazioni lavorative accessorie e, conseguentemente, di contrastare il fenomeno del lavoro irregolare o “in nero”.
Nonostante la meritevolezza delle finalità auspicate, tale strumento è stato per lungo tempo centro di numerosi dibattiti e criticato per aver facilitato la precarietà del mondo lavorativo: ed invero, è stato in un primo tempo abolito ad opera del D.L. n. 25/2017 per poi essere reintegrato e modificato dal D.L. n. 50/2017.
Inoltre, molto spesso tali buoni celavano e celano un rapporto di lavoro che non è affatto saltuario.
Ed è su tale aspetto che è intervenuta recentemente la Corte di Cassazione, sezione Lavoro, con la sentenza del 12 dicembre 2019 n. 32702.
Il caso:
Una società, in data 15.10.2013, assumeva un dipendente con contratto di lavoro accessorio alla cui scadenza, in data 20.12.2013, seguiva la stipulazione di un contratto di apprendistato professionalizzante della durata di 36 mesi.
Il dipendente impugnava il licenziamento.
La società proponeva reclamo avverso la decisione di primo grado che aveva rigettato il proprio ricorso in opposizione; il giudice dell’appello confermava l’ordinanza emessa a seguito della fase sommaria ex L. n. 92/2002.
In particolare, l’ordinanza del giudice di prime cure (confermata in appello) accertava la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dal 15.10.2013 e, di conseguenza, veniva dichiarato illegittimo il licenziamento del dipendente.
La società veniva quindi condannata alla reintegrazione del lavoratore nonché al pagamento in suo favore di un’indennità risarcitoria dalla data del licenziamento alla reintegra.
La decisione della Corte di Appello:
Secondo il giudice di secondo grado, dai documenti probatori sarebbero emersi due distinti rapporti di lavoro: il primo di tipo accessorio iniziato ad ottobre del 2013 ed il secondo di apprendistato decorrente dal dicembre dello stesso anno.
Tuttavia, il primo contratto doveva, più propriamente, considerarsi quale mezzo per regolarizzare la successiva posizione lavorativa posto che, per tutta la durata dei rapporti contrattuali, il dipendente era stato assoggettato tanto agli orari quanto alle direttive impartite dalla società, per cui “non era rinvenibile una ragione effettiva per distinguere tra due diverse tipologie contrattuali”.
Inoltre, dalle prove orali emergeva che “si era fatto ricorso ad una utilizzazione da parte della società di due forme contrattuali al fine di coprire mansioni piuttosto semplici nell’ambito di un unico rapporto precario e prolungato, favorevole solo alla società”.
Di talché, posta l’assenza di una valida ragione per ricorrere a due contratti diversi per uno stesso e prolungato rapporto di lavoro, precario solo nella forma, per coprire mansioni semplici e rimaste invariate per tutto il tempo intercorso, il giudice del gravame accertava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra la società e il dipendente.
Tutto quanto supra rilevato veniva ulteriormente avvalorato facendo riferimento alle modalità di pagamento del rapporto sorto con la stipulazione del (primo) contratto accessorio.
La Corte, in particolare, evidenziava che il limite quantitativo fissato dall’art. 70 del D.lgs n. 276/2003 (di euro 2.000,00) riferito a compensi percepiti per prestazioni accessorie in favore di un singolo committente nel corso dell’anno solare dovesse essere inteso quale compenso lordo; di talché, essendo il valore del voucher nel caso di specie pari ad euro 10,00 ciascuno, gli euro 2.000,000 di compenso corrisponderebbero a 200 vaucher e quindi a 200 ore che il lavoratore avrebbe potuto prestare nei confronti del singolo committente nel corso dell’anno solare.
Nel caso di specie, tuttavia, il lavoratore avrebbe prestato 231 ore di lavoro accessorio, per un totale di euro 2.310,00, superando il limite previsto ex lege, con conseguente trasformazione del rapporto accessorio in subordinato.
La società domandava la cassazione di tale decisione, affidando l’impugnazione a due ordini di motivi, cui resisteva, con controricorso, il lavoratore.
In particolare, con il primo motivo, la società ricorrente denunciava la violazione e la falsa applicazione degli artt. 70 e 72 del D.lgs. n. 276/2006 per aver la sentenza impugnata riconosciuto la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra la stessa e il lavoratore.
Con il secondo motivo, la società ricorrente lamentava la violazione e la falsa applicazione degli artt. 70 e 72 del D.lgs. n. 276/2003, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., per aver la sentenza impugnata ritenuto che il limite massimo di euro 2.000,00 per i compensi percepiti da parte di un singolo committente nell’anno solare per prestazioni di lavoro accessorio dovesse essere riferito al valore nominale dei buoni pari ad euro 10,00 e non al compenso percepito dal lavoratore pari ad euro 7,50.
La decisione della Corte di Legittimità:
La Corte di Legittimità ha rilevato come la ricorrente si sia limitata a censurare soltanto alcuni aspetti della sentenza del giudice dell’appello, il quale poneva a base della propria decisione “la mancanza di ogni ragione effettiva per fare ricorso alle due tipologie contrattuali utilizzate in relazione ad un indistinto e prolungato rapporto lavorativo solo formalmente precario, […] al fine di coprire mansioni relativamente semplici, rimaste invariate nel corso dell’intero rapporto lavorativo”.
Secondo gli Ermellini tali considerazioni sono sufficiente per affermare l’inidoneità del primo motivo di gravame a riformare la sentenza impugnata articolata su di un piano più ampio relativo alla sostanziale uniformità della prestazione lavorativa anche nel successivo periodo dell’apprendistato, che, come già esplicato, rivelerebbe una discordanza tra forma e sostanza del lavoro e che si caratterizza per i connotati tipici del rapporto subordinato.
Questa motivazione, da sola, ha retto l’intera decisione rendendo superflua l’indagine in merito al superamento dei limiti previsti dagli artt. 70 e 72 del D.lgs. n. 276/2003.
Con la sentenza in commento la Corte ha rigettato pertanto il primo motivo e dichiarato inammissibile il secondo, confermando integralmente la decisione dei Giudici di appello.